“La Nausea” è il romanzo per raccontare la pandemia ai nostri nipoti

Durante il periodo di lockdown nazionale che ha interessato l’Italia – dal 9 marzo al 4 maggio – tra i buoni propositi di cui tutti hanno parlato, c’era quello di leggere i libri che da sempre si volevano leggere, di completare quelli lasciati con il segnalibro a poco più di metà lettura: un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di voglia. Io sono tra quelli che ha portato a termine vari romanzi e ne ha iniziati di nuovi: tra questi c’è stato “La Nausea” di Jean-Paul Sartre.

La Nausea, Jean-Paul Sartre

Copertina del romanzo La Nausea, Jean-Paul Sartre, Einaudi Tascabili

“La nausée” è un romanzo filosofico pubblicato nel 1938. Scritto sotto forma di un diario in cui il protagonista, Antoine Roquentin, racconta delle ultime settimane trascorse a Bouville e dello studio di ricerca ai fini della stesura della sua tesi, poco prima di trasferirsi a Parigi. In realtà il libro è impregnato da “Nausea”, con cui Antoine è costretto a convivere: un romanzo che esiste, di cui l’esistenza ha preso il possesso; perché essa è infinita, dappertutto. Non si può sfuggire all’esistenza, anche scrivere queste righe significa essere.

«L’esistenza – che non è mai limitata che dall’esistenza.»
La Nausea, Jean-Paul Sartre

Questi attacchi di “nausea” rappresentano “qualcosa”, sempre dietro l’angolo: un’angoscia esistenzialistica che invade tutto, liquidamente, affogando e intrappolando sé stessi.

Soprattutto non muoversi, non muoversi… Ah!
Questo movimento delle spalle, non ho potuto trattenerlo…
La Cosa, che aspettava, s’è svegliata, mi si è sciolta addosso, cola dentro di me, ne son pieno… Non è niente: la Cosa sono io. L’esistenza liberata, svincolata, rifluisce in me. Esisto.

Sicuramente nel 2020 molti di noi hanno avuto l’occasione di sentire rifluire qualcosa, riscoprendo solitudine, introspezione, riflessione, esistenza. Avere a che fare con sé stessi – e il romanzo di Sartre lo descrive – è forse la cosa più difficile e spesso si vuole soltanto finire quello che si sta facendo, godersi la propria routine quotidiana senza soffermarsi su ogni singolo particolare. Ma questi mesi ci hanno portato inevitabilmente a contraddirci, a obiettarci, fino al punto da porci la domanda che tutti almeno una volta ci siamo posti: “Cosa farò dunque della mia vita?“. Una domanda a cui molti rifuggono, che si rimanda fino a quando non ci si trova nella situazione di star facendo qualcosa, che nuovamente fa riemergere l’annosa questione.

Per fare un esempio: è la sensazione che emerge quando si sta studiando per un esame universitario e anche se ne mancano altri mille ci si interroga sul dopo. Sensazione che è stata costante in questi mesi, soprattutto per chi magari si era appena laureato e vedeva il suo futuro – già incerto – appensantito da questa sensazione, o peggio per chi ha perso il lavoro. Uno scenario difficile, da cui molto si sono allontanati con la mente; esperienze passate che un po’ per volontà e un po’ per innati comportamenti umani, si tendono a rimuovere: quanti di voi ricordano quella sensazione? E se dovesse assalirvi il dubbio su cosa raccontare alle generazioni future, non tanto dal punto di vista storico – ormai ancorato saldamente –, quanto da quello emotivo, “La Nausea” di Jean-Paul Sartre vi riporterà a quei momenti.

«Ho ripreso la penna ed ho cercato di rimettermi al lavoro; ne avevo fin sopra i capelli di tutte queste riflessioni sul passato, sul presente, sul mondo. […] Ho gettato attorno uno sguardo ansioso: presente, nient’altro che presente.»

Al punto tale da riuscire ad annullare il passato, rendendolo privo di senso. Una situazione che alla lunga può diventare – e quasi certamente lo diventa – intollerabile. A quanti sarà capitato di ritrovarsi assorti nella constatazione di sé stessi, fissando per troppo tempo uno specchio, concentrandosi su di una parte del  proprio corpo, e ancora più semplicemente pensare: quando ad esempio quando per gioco o per sport (chi pratica yoga sa quanto può essere faticoso anche solo limitare i pensieri), ci si pone come obiettivo di “non pensare” – frase che andrebbe decisamente riformulata, perché secondo Sartre il pensiero è vita. Ed è impossibile “non pensare”:

«se soltanto potessi smettere di pensare, andrebbe già meglio. […] Per esempio questo doloroso rimuginare: io esisto, sono io stesso che lo faccio durare. Io. Il corpo, quelllo vive da solo, una volta che ha cominciato. Ma il pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso… e non posso impedirmi di pensare.»

Un altro sentimento che ancora oggi si prova e che quindi ha molta più probabilità di essere riscontrato rispetto ai precedenti– fino al punto da farvi dire: «è vero, sono io» – è il senso d’avventuradovuto all’impossibilità di viaggiare sia a livello globale o anche solo nazionale, per via degli spostamenti limitati e semplicemente per via della situazione straordinaria, di una claustrofobia globalizzata. Un senso d’avventura che può portare frustrazione, malinconia e che sembra aumentare notevolmente più quando si è a casa, per esempio, che quando si è in viaggio; simile all’attesa del piacere. Leggendo “La Nausea” si scopre che quel senso di avventura «decisamente non proviene dagli avvenimenti».

«Piuttosto è il modo con cui gli istanti si concatenano. Ecco come credo che avvenga: d’un tratto si sente che il tempo scorre, che ogni istante porta con sé un altro istante, questo un altro e così di seguito; che ogni istante si annulla, che non vale la pena tentare di trattenerlo, ecc. ecc. E allora si attribuisce questa proprietà agli avvenimenti che vi appaiono negli istanti; ciò che riguarda la forma lo si attribuisce al contenuto.»

Lo scorrere del tempo è come una donna che si pensa diventerà vecchia, senza però vederla mai invecchiare: e così la consapevolezza dello scorrere del tempo che non sentiamo, ma a volte – così come la donna – sembra di vederlo invecchiare. L’irreversibilità del tempo che si accentua e appare nei momenti in cui si ha la consapevolezza di non poter fare quello che si vuole. In questi momenti «si direbbe che le maglie sono rinserrate e, in questi casi, non è questione di mancare il proprio colpo poiché non si potrebbe più ripeterlo.», semplicemente. Come se la natura del presente si svelasse, dimostrando tutto ciò che esiste in quel momento, mentre il resto sfugge. Specialmente il passato simile al gesto con cui i ricordi si conservano in uno scatolone, diventa un «collocamento in pensione».

Jean-Paul Sartre a Parigi, Francia, 1964. (Foto di Dominique Berretty/Gamma-Rapho via Getty Images)

La pandemia è riuscita a fare una delle cose più temute dall’essere umano: ha svelato l’esistenza. E lo ha fatto in un modo che si potrebbe definire postmodernista, mettendo ancora più in crisi principi come la ratio e la fede nel progresso illimitato.

«[L’esistenza] aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza.»

Jean-Paul Sartre libera “La Nausea” rivelando una verità taciuta sulla condizione umana, poi attraverso il protagonista Antoine Roquentin descrive uno scenario definito di decomposizione borghese al punto tale da sentirsi d’appartenere «ad un’altra specie». L’arroganza borghese che sembra anticipare quella odierna: uomini che fino a qualche mese fa non temevano nulla, convinti che lo sviluppo tecnologico possa risolvere qualsiasi cosa:

«Non hanno paura, si sentono a casa loro. […] Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili.»

Dimenticando che in realtà le grandi città si poggiano sopra la natura, e che quest’ultima si insinua dappertutto. Oggi sembrano essere in pochi a rendersene conto e a considerare la natura così come faceva Antoine Roquentin.

«Io la vedo, questo natura, la vedo… So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza… Non ha che abitudini, e le può cambiare domani. E se capitasse qualcosa? Se d’un tratto si mettesse a palpitare? Allora s’accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore.»

E quel domani è stato il duemilaventi, quel “qualcosa” è capitato. Nella prefazione dell’edizione di Einaudi si può leggere che il libro di furore e di rabbia è un grido del cuore proprio alla vigilia della Seconda guerra mondiale: invece leggere “La Nausea” alle generazioni successive potrà essere un grido con cui raccontare la pandemia ai propri nipoti. Perché sono la nostra generazione e quelle successive ad avere più consapevolezza, ad essere più coscienti e osservare – come Roquentin – i propri padri, spesso rimproverandoli per quello che stanno facendo.

L’umanitarismo, come si è potuto vedere, poco ha avuto da fare con una crisi economica, sanitaria e sociale: gli “Andrà tutto bene” hanno lasciato il tempo che trovavano; certo la Scienza in meno di un anno è riuscita a sviluppare dei vaccini in grado di contrastare l’emergenza, che presto si spera ci riporteranno alla normalità. Ma fino a questo momento, si è persino dato vita alle peggiori teorie complottiste, pur di non accettare la nostra debolezza di fronte a qualcosa di inaspettato. Tutto questo perché non abbiamo badato all’esistenza, che sarebbe l’equivalente di “non si apprezza qualcosa quando la si ha”. Perché ci siamo fatti ingannare dai Domani: semplicemente altri oggi intrisi di un’eccessiva sicurezza; fino al punto da diventare ottusi e ripugnanti – scrive Sartre. E allora chiudere questo pezzo con la pagina numero 214 de “La Nausea”, è il migliore epilogo che ritengo possa farci riflettere:

«Se ne vedranno altri, allora, piombati bruscamente nella solitudine. Uomini completamente soli, solissimi, con orribili mostruosità, correranno per le strade, passeranno pesantemente davanti a me […]. M’addossero ad un muro, e griderò al loro passaggio: – Che ne avete fatto della vostra scienza? Che ne avete fatto del vostro umanitarismo? dov’è andata a finire la vostra dignità di canna pensante? […] Forse che ciò non sarà pur sempre esitenza? delle variazioni sull’esistenza?»

– Leggi anche: Due pagine di David F. Wallace per rileggere questo Natale

 

Sull’Autore

Ho 22 anni, laureato in Comunicazione, tecnologie e culture digitali e sono direttore di MdC, nonché caporedattore della sezione Intrattenimento. Attualmente vivo a Roma. Cerco la precisione in ogni dove perché per me sono i dettagli che fanno la differenza. Dal 2017 parlo con artisti di ogni tipo: da JAGO a Dutch Nazari, le interviste le trovate tutte qui. Ho un blog: salvostuto.net

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