
Imre Oravecz, autore di “Settembre 1972“
“Non ho mai tenuto un diario, e anche in futuro me ne guarderò bene. Aborro qualsiasi tipo di obbligo, perfino quello a cui mi sottoponessi volontariamente. Eppure, quest’opera è iniziata come una sorta di confessione destinata al cassetto, com un diario senza date” (Imre Oravecz, “Settembre 1972” – Introduzione)
Questo libro di fatto si rivela un vero e proprio diario. Non il classico diario, questo è certo. Lo si potrebbe definire come un “mosaico di momenti“; quei momenti che narrano una storia, nonostante essa sia scarna di avvenimenti. Si racconta di un’amore, dalla sua nascita alla sua morte e di una coppia, senza nome e per questo omnibus, che attraversa questa parabola amorosa tra l’iniziale innamoramento, il matrimonio, l’aborto del primo figlio, la nascita del secondo e i vari tradimenti.
Sono 92 i capitoli che compongono la narrazione, alcuni brevi ma essenziali, altri più lunghi e riflessivi. La grande forza di quest’opera – paradossalmente – sta nel suo essere breve: descrive una qualsiasi storia d’amore attraverso i suoi tratti principali.Nonostante questo, l’amore di cui si parla non è un amore universale. L’amore è quello dell’io narrante, ma le sue vicende, le sue esperienze, le sue emozioni ed i suoi comportamenti possono essere vissuti da chiunque legga questo libro.
“Era già come se io non fossi io, ma qualcun altro, che tuttavia era me, il protagonista di una storia eterna, raccontata fino alla noia, che era ancora mia, ma ormai anche di altri”(Ibidem)
Significative sono le parole che aprono la narrazione, scritta nel genere del prosimetro, che rimarcano nuovamente questa universalità della scrittura.
“In principio era il tu, era il là, era l’allora […]” (Imre Oravecz – “Settembre 1972”)
L’opera si apre con due termini essenziali nella poetica di Imre Oravecz: l’ “era” ed il “tu“. Innazitutto ricorda esplicitamente l’inizio del Vangelo secondo Giovanni: “In principio era il Verbo”. Le due citazioni hanno in comune alcuni aspetti, ma anche una differenza.
In entrambi si ritrova la formula “in principio“. In tutto ciò che concerne l’uomo è necessario un inizio, che sia sacro o sentimentale; è necessario un punto di partenza. In entrambi i casi, nel loro divenire e nel non-concludersi, si ritrova l’imperfetto “era“. Non un principio netto, arido, sterile, infecondo, ma l’inizio di un qualcosa che si prolungherà nel tempo, come qualcosa che continua da una nascita. C’è però una differenza: il soggetto di questo divenire. In Giovanni troviamo il “Verbo“, Dio; in Oravecz troviamo il “tu“.

Copertina del libro – Andrea Kiss – @Edizioni Anfora
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E la domanda è quasi spontanea: chi è questo “tu“?
“Il ciclo di poesie di Imre Oravecz descrive tante donne, ma solo un desiderio, quello che ci spinge verso l’oggetto del desiderio, verso l’unica donna.” (Peter Sárközy – “Due scrittori ungheresi contemporanei: Lajos Grendel e Imre Oravecz”)
Quel “tu“, primo soggeto-oggetto dell’opera, si rivolge al principale interlocutore dell’ “io narrante“. Non necessariamente una singola donna, piuttosto un’entità reale. Si identifica con la visione utopica di una donna, perfetta per il narratore, che riesca a farlo stare bene: individuo perfetto e al contempo fine, per la ricerca del piacere.
La ricerca di quel “tu” nasce essenzialmente da un bisogno primario: quello della soddisfazione personale. E lo stesso “tu” ricerca in qualche modo soddisfazione dall’ “io“. Qui, l’amore – sempre che se ne possa dare una definizione universale – viene trattato, almeno in principio, con estrema rudezza e cinismo e lo stile pulito e crudo, riesce a renderne ancora più l’idea.
“Era già un bel pezzo che bighellonavo là, nel popolare parto della capitale della tua patria, con l’intento di procacciarmi una donna per soddisfare i miei desideri, e in cui destassi anch’io il desiderio da poter poi soddisfare […]” (Imre Oravecz – “Settembre 1972”)
La donna, in chiave contemporanea e sicuramente in un racconto più disilluso, ricorda quella della “Vita Nova” dantesca: da una parte Beatrice, il “tu” classico; dall’altra il “tu” di Oravecz, pura soddisfazione.
La ricerca non trova mai fine, come non c’è mai fine c’è alla brama di felicità. Per quanto sia avventuroso, è doveroso andare alla ricerca del piacere.
“E dopo di te andarono e vennero i giorni, le settimane, i mesi e gli anni, e venni e andai anch’io, di paese in paese, di città in città, di stanza in stanza, e vennero e andarono anche le donne […]“ (Ibidem)
Ed in questa perpetua ed incessante ricerca non si scappa dal dolore, dalla vita oggettiva che precedentemente era inebriata dal piacere raggiunto o solamente sfiorato. Un episodio in particolare riporta, come una forza elastica opposta e di pari intensità del piacere, alla cruda realtà. Quando il narratore racconta del primogenito, mai nato per effetto di un aborto volontario:
“Ho un sogno ricorrente, […] con un grande rombo di motore si avvicina un autobus, non ha numero, non si ferma, […] scorgo un bambino, è in piedi al vetro posteriore, […] e sai chi è, il primo frutto del nostro amore, il fratello maggiore di nostro figlio, che non è potuto nascere, che ormai sarebbe un ragazzo grande, al cui aborto io ho acconsentito con leggerezza […]” (Ibidem)
L’amore, come la vita, si esprime come l’andamento incerto di una reazione chimica. Si parte dai reagenti, il bisogno di soddisfare i propri desideri; si passa in turbolenti stati di transizione, come possono esserlo l’innamoramento, i litigi, il tentativo di suicidio, i tradimenti reciproci; ed essi portano all’evoluzione e all’assestamento in stati stabili, degli intermedi, come una vita sana, un lavoro, l’inizio di un’ennesima relazione stabile. Infine si arriva ai prodotti, termine ultimo di un processo intermittente, a volte scosceso e a volte lineare. Si passa la vita a vibrare, a mutare, a cambiare composizione, a rompere legami e a ricomporli, incessantemente, per raggiungere un parziale e quasi sempre temporaneo stato di equilibrio: il piacere, il desiderio. Ed i prodotti, come in chimica, non sono assolutamente univoci.
Sull’autore
Imre Oravecz, nato nel 1943 a Szajla (Ungheria), è uno dei più acclamati letterati ungheresi. Poeta, scrittore, traduttore ed insegnante, Oravecz pubblica il suo primo libro solamente nel 1972. Nel 1988 pubblica “Settembre 1972“. Nel 1989, dopo una vita passata nell’orbita del governo comunista, emigra neli Stati Uniti, ritornando in patria l’anno successivo come consigliere del primo governo democratico mai eletto. Vince diversi premi, tra cui il Premio Aegon nel 2016.
Sulla casa editrice
Così si descrivono:
“Edizioni Anfora sin dall’inizio si è sempre occupata di letteratura Centro Europea, in particolare ungherese. Nasciamo nel 2004 anche per demolire quel muro tra Est e Ovest che si era creato nelle nostre teste e in quelle dei lettori italiani in seguito a un momentaneo rapporto di forze tra capi di Stato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha perso la sua legittimità.
Vogliamo ricreare la simbiosi tra letteratura occidentale e centroeuropea, riallacciando con una storia bimillenaria tra Est e Ovest. Un ponte il nostro rigorosamente letterario e identitario.”