È passato ormai più di un anno dall’arresto in Egitto di Patrick Zaki. È passato ormai più di un anno e io devo ammettere di star iniziando a dimenticare. Dimentico con facilità, del resto. Solitamente sono una di quelle persone che non ama particolarmente guardare indietro, tenere traccia del tempo, scrivere diari, difatti. Molto più abitualmente tendo ad abbandonarmi al presente, al flusso di quello che accade nel momento stesso in cui accade. Perché guardo Sanremo? Perché seguo il calcio? Perché mi abbevero compulsivamente dell’ultimo fatto di attualità che compare nel mio feed, il più delle volte senza neppure comprenderlo? Perché attendo con ansia l’uscita del nuovo album degli Arctic Monkeys che, ne sono certo, sovvertirà tutto quello che credevo di sapere su di loro e sulla mia adolescenza? Probabilmente per mille e uno disparati motivi; eppure uno di questi è senza dubbio un inconscio desiderio di intercettare la contemporaneità, di sentirmi vivo, di collocarmi in un punto preciso nel tempo e nello spazio e dire: “Io sono qui. Qui mi colloco”.
“Bugo è qui, io sono qui, non sono mai andato via” scriveva solo alcuni giorni fa, 6 marzo 2021, sui propri canali social il cantautore milanese Bugo in risposta a coloro che ancora ironizzano sul suo allontanamento dall’edizione del Festival di Sanremo dello scorso anno. Anche Bugo in questo caso sembrava quindi posizionarsi, collocarsi, ribadire la propria esistenza in uno spazio e in un tempo precisi. Nel mare degli eventi, nel ripetersi di novità abituali, in un anno che tutto è sembrato fuorché abituale, smarrire se stessi è facile. Dimenticare diventa quasi consigliabile. L’indignazione di un giorno diventa la distrazione del successivo, la certezza di oggi diventa il dubbio di domani. E iniziamo a scordare. E io precisamente questo ho fatto: ho dimenticato. O meglio, ricordo, sì. Ricordo ancora. Ma inizio a sentire meno, assuefatto al perdurare di una situazione che sembra non muoversi di una virgola. Inizio come a non avere più memoria di quell’indignazione, di quella paura stessa che mi aveva inizialmente mosso.
Per cui non c’è che un modo per ritornare a provare quello che provavo, e capire cosa sia possibile fare ora: ripartire dall’inizio. Esattamente dall’inizio: un anno e un mese fa, cioè. Non dall’Egitto però: da Sanremo, a un anno e un mese di distanza dalla conclusione dell’edizione del 2020, a un giorno dalla conclusione dell’edizione del 2021. Il 7 febbraio 2020, difatti sul palco del Teatro Ariston di Sanremo accade qualcosa, come dicevamo: in seguito a tuttora irrisolte diatribe tra i due, il cantautore Morgan decide di modificare il testo della canzone con la quale lui e lo stesso Bugo sono in gara a Sanremo dal titolo Sincero. Bugo in tutta risposta prende i suoi fogli con il testo modificato (sapremo mai come proseguiva?) e si allontana. Morgan si produce allora in un poco convinto “Che succede?”, mentre il suo successivo “Dov’è andato Bugo?” diventerà presto come è giusto che sia un meme ripetuto alla nauseain tutte le salse. Bugo non c’era dunque. Bugo era altrove. Si collocava alternativamente allo spazio del presente, non accettava di essere collocato in tale spazio a condizioni che non fossero le sue.Quel giorno stesso, il 7 febbraio 2020, alle ore 4 del mattino, all’Aeroporto del Cairo Patrick Zaki veniva arrestato dall’esercito egiziano. In Italia l’avremmo saputo solo due giorni dopo, il 9 febbraio. Patrick sarebbe poi stato accusato dal governo egiziano di aver pubblicato sui propri social dei post molto duri nei confronti del regime egiziano di Al-Sisi; è accusato di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, propaganda per il terrorismo e sarà per questo imprigionato.

Vignetta realizzata dall’attivista e artista Luca Ercolini sulla pagina Instagram “I disiegi di Elle“
Patrick Zaki era, ed è, infatti uno studente dell’università di Bologna, università presso cui (pandemie globali varie permettendo) sto in questo mese per laurearmi, e per poco non era diventato mio coinquilino. La mia prima reazione social al momento di apprendere la notizia sarebbe stata quindi di odio puro: non si trattava chiaramente di uno dei miei migliori amici, ma il fatto di averlo conosciuto un giorno, prima di un esame, sotto il cedro di Via Cartoleria, conferiva inevitabilmente ai miei occhi un peso maggiore alla notizia . A essere sinceri anche la mia seconda reazione fu ugualmente di odio puro, per quanto con un minimo di articolazione in più. In quei giorni mi ritrovai a scrivere parecchio, in tutti i modi, principalmente parlando di me, come al solito. Nelle mie incerte intenzioni cercavo però in qualche modo di comunicare a qualcuno che Patrick Zaki era – ed è – una persona vera, reale, in carne e ossa, una persona che qualcuno come me appunto può aver conosciuto, amato, odiato, e potrebbe tuttora conoscere, amare, odiare. Sembra forse una cosa scontata a dirsi, ma spesso quando le notizie appaiono l’una dopo l’altra sulla superficie piatta e blu-luminescente di uno schermo cominciano ad assomigliarsi, non le distingui più. Le persone sono profili, le facce maschere, gli spazi e le nazioni diventano ritagli di testo, le idee punti e virgola. Volevo che si capisse che Patrick esiste: che c’è. E chiaramente sentirmi parte di quella storia, della sua storia; perché quando scriviamo stiamo sempre egoisticamente anche posizionandoci rispetto al mondo, rispetto alle idee, rispetto ai ritagli di testo e ai punti e virgola. Dicevo: ecco, lo conosco, è reale: non è un supereroe. Fatelo tornare a studiare perché è come me: stanno imprigionando anche me.

Questa immagine di Patrick Zaki è stata diffusa da https://eipr.org/en/press/2020/02/mansoura-prosecution-sets-hearing-saturday-15th-february-look-leave-appeal-patrick con licenza Creative Common CC-BY-SA-4.0″
Egocentrico come sempre: non stavano imprigionando anche me. Stavano imprigionando lui e solo lui; o meglio, lui e gli altri membri dell’EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights) poi rilasciati in seguito a quanto pare anche alle pressioni di un personaggio del mondo dello spettacolo particolarmente rilevante come Scarlett Johansson. Ma io stavo qui, in Italia. La mia vita continuava e le mie lamentele e proteste presto si sono fatte meno convinte, distratte dal lockdown, dal lavoro, dalla tesi, dagli Arctic Monkeys, dal Milan, da cose via via sempre meno importanti.
Ho però nel mentre costantemente seguito le iniziative di pressione proposte da varie associazioni tra cui Amnesty International e la pagina Facebook Patrick Libero, o anche lo stesso disegnatore Gianluca Costantini, autore della sagoma di Patrick utilizzata in buona parte delle campagne di protesta che oggi campeggia sotto le Due Torri bolognesi, o ancora i messaggi costanti di figure di maggiore o minore rilievo politico o mediale, libri, articoli. Molto è stato fatto per lanciare messaggi per Patrick. E molto è cambiato da quel giorno in cui è stato arrestato. Nel frattanto di 45 giorni in 45 giorni la sua detenzione è stata continuamente rinnovata (il sistema giuridico egiziano permette di ripetere tale procedura fino a un massimo di due anni, senza arrivare a processo). Ogni volta che sembrava, iniziava, pareva finalmente fosse sul punto di accadere qualcosa di rilevante che portasse alla sua scarcerazione, di nuovo incessante il messaggio “la detenzione di Patrick Zaki stata rinnovata per altri 45 giorni” faceva capolino nel mio feed come qualcosa di inevitabile. Anzi, recentemente si è avuto piuttosto un aggravarsi della situazione, visto e considerato che il padre di Patrick stesso, gravemente ammalato in seguito al riacutizzarsi di un’infezione alle gambe, è stato nuovamente ricoverato e sebbene le sue condizioni peggiorino giorno dopo giorno a Patrick è stata ugualmente negata la possibilità di fargli visita.
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Probabilmente è così che vincono i regimi autoritari, in fin dei conti: non con uno scenario alla 1984 in cui vieni esposto alla tua peggiore paura, in cui la tortura fisica mentale e psicologica è ciò che ti rompe, ciò che ti fa cedere e diventare connivente e corresponsabile. O meglio, nel caso di Patrick è stato più volte dimostrato che di tortura fisica (con l’utilizzo di minacce, percosse alla schiena e allo stomaco, e scosse elettriche) sia invece possibile parlare (si è anche detto come Patrick sia stato paradossalmente interrogato per suffragare legami tra lui e la famiglia di Giulio Regeni).Questa costanza del potere a ripetere costantemente un secco “no”, senza motivazioni, è precisamente ciò che logora la pazienza, la volontà di agire, la speranza di ottenere un risultato. Il potere, diceva Bifo in Futurabilità, è potere di facilitare. Come è potere di facilitare, esso è però al contempo potere di ostacolare; e nella sua capacità di ostacolare questo potere schiaccia, blocca, scoraggia, fa dubitare, fa dimenticare. E io, devo ammetterlo, ho dimenticato.

Non so quante volte quest’ anno mi sia capitato di passare fra le due Torri poste al centro di Bologna, accanto al volto di Patrick disegnato da Gianluca Costantini senza quasi accorgermene, sempre distratto dal ripetuto pensiero dell’impegno seguente. (foto mia)
Forse è l’impossibilità di osservare un riscontro della mia azione sul mondo a bloccarmi. Sentirsi incapaci di indirizzare gli eventi, per quanto vi si provi, per quanto si insista, è sfiancante, demotiva. Forse è così che si fermano i mutamenti, forse è così che da soli ci blocchiamo, allontanandoci dallo spazio del presente, rinunciando ad agire, concentrandoci chi sulla propria tesi da concludere, chi sul lavoro, chi sull’amore, chi sugli amici lontani, chi sui gatti, chi sul Milan.
Però.
Però ho conosciuto Patrick Zaki in quel cortile nel 2019 (o era il 2018?). Erano trascorsi sei o sette anni ormai dalla Primavera Araba egiziana, da quella primavera che aveva tentato di sovvertire la situazione in paesi come l’Egitto bloccati da anni di corruzione e illiberalità e si era ritrovata in un pantano autocratico se possibile peggiore se non uguale a quello precedente. Ripeto: erano trascorsi sette anni. Eppure Patrick ci credeva quando me ne parlava. Patrick cercava luoghi politici dove portare avanti quel cambiamento che desiderava. Patrick portava avanti una tesi in un master di studi di genere coltivando la possibilità di immaginare una realtà alternativa a quella offerta dal regime di al-Sisi. Insomma, Patrick Zaki non ha mai smesso di crederci. Patrick non si era fatto piegare dallo sconforto, e sono certo che se mai questa infinita prigionia riuscirà a piegarlo – cosa che spero con tutto me stesso non accadrà – ci sarà comunque qualcuno pronto a raccogliere il testimone.