Suicidio maschile: i rischi psicosociali connessi

Articolo di Alice Amolaro

I 365 giorni dell’anno sono scanditi, in tutto il mondo, da diverse ricorrenze tematiche, istituite da organizzazioni riconosciute globalmente come l’UNESCO, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e altre ancora. Si tratta di giornate mondiali dedicate alla sensibilizzazione di particolari tematiche riconosciute globalmente: abbiamo la giornata mondiale della pace, la giornata della memoria, le giornate internazionali della donna e dell’uomo e così via. In queste particolari giornate i paesi svolgono numerose attività di sensibilizzazione, informazione e prevenzione: un modo per ricordarsi, insieme, i motivi che stanno dietro l’istituzione di una ricorrenza del genere.

Il 10 settembre di ogni anno è dedicato a un tema di fondamentale importanza che, ancora oggi, è la causa di morte prematura di moltissime persone: la prevenzione del suicidio.

Sono passati, ormai, molti giorni dallo scorso 10 settembre e ancora di più dal lancio della prima giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, avvenuta a Stoccolma nel 2003 grazie all’iniziativa di AISP (Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio), riconosciuta successivamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Allora, come oggi, gli obiettivi prefissati riguardano i fattori di rischio del suicidio, i metodi di prevenzione e il fondamentale ruolo delle comunità dove risiede il soggetto a rischio suicidario.

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Nonostante la giornata mondiale sia già passata, la prevenzione e l’attenzione a questo tema non dovrebbero mai diminuire: questo articolo propone una riflessione a tal proposito, concentrandosi sul genere maschile, che è il più a rischio di suicidio.

Innanzitutto chiariamo che è difficile, se non impossibile, arrivare a definire con precisione uno schema che raffiguri il pattern di coloro che muoiono per suicidio. Tuttavia, grazie a numerose e minuziose ricerche, negli anni si è arrivati a definire il suicidio come un complesso fenomeno multifattoriale, sia a livello collettivo che a livello individuale (Gustavo Turecki and David A Brent, 2016).

Ormai sappiamo che, oltre alla correlazione positiva tra suicidio e disturbi psichiatrici, molti suicidi avvengono in modo impulsivo in momenti di crisi (alcuni fattori di rischio includono l’essere single e il vivere da soli, avere sentimenti di forte disperazione, impotenza e inutilità, avere problemi coniugali ed economici, essere vittime di violenza e abuso).[1]

Dalla letteratura internazionale si apprende come determinati fattori di rischio sembrino colpire maggiormente il genere maschile: vediamo quali.

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Depressione

Foto di Daniel Reche da Pixabay

Disoccupazione, problemi economici e povertà

 Molti studi hanno dimostrato come le più grandi recessioni economiche della storia abbiano una stretta correlazione con l’aumento del numero dei suicidi (Chang et al., 2013). A pagarne le conseguenze sono maggiormente gli uomini rispetto alle donne: la motivazione potrebbe risiedere nel fatto che questi subiscono maggiormente le pressioni della società a essere i principali breadwinner della famiglia e subiscono più spesso la vergogna rispetto alla disoccupazione, così come dimostrato da diversi autori. Il tasso di suicidi delle donne, rapportato alle recessioni economiche o al periodo immediatamente seguente, non subisce variazioni o è di molto inferiore a quello maschile (Stack and Wasserman, 2007; Haw et al., 2015).

Un lungo periodo di disoccupazione potrebbe condurre, gradualmente, l’individuo in una spirale di disperazione da cui è difficile uscire: oltre all’ingente perdita dei risparmi e dell’abitazione, occorre fare i conti con una demoralizzazione sempre più accentuata, i quali potrebbero far sorgere – o inasprire, se preesistenti – disturbi mentali come depressione, ansia, e consumo di alcol o sostanze stupefacenti, i quali sono strettamente collegati al rischio suicidario.

In ogni caso, anche le tensioni all’interno del nucleo famigliare, conseguenti la disoccupazione e i problemi economici, possono condurre al rischio di suicidio.

I fattori di stress “economici”, infatti, affliggono negativamente la psiche dei membri di un nucleo famigliare, rendendoli più irritabili, depressi e propensi alle discussioni e ai litigi: tutto questo diminuisce la qualità e la stabilità delle relazioni e potrebbe condurre a una rottura o un divorzio. Secondo un report condotto nel Regno Unito[2] gli uomini riportano di avere più rabbia quando sentono di non star procurando abbastanza denaro per la famiglia. Inoltre, la disoccupazione maschile rischia, in particolare, di condizionare la soddisfazione di coppia in entrambi i partner. Entrambe queste evidenze scientifiche ci dimostrano, ancora una volta, quanto sia tutt’ora pressante il ruolo tradizionale di genere che vede l’uomo come principale provider economico della famiglia.

Problemi di coppia e divorzio

Anche la propria situazione coniugale potrebbe essere collegata al rischio suicidario: diversi studi, negli anni, evidenziano come le persone sposate sperimentano minori tassi di suicidio rispetto a single e persone che non si sono mai sposate, mentre separati, divorziati e vedovi hanno i tassi più alti (Smith, Mercy and Conn, 1988). Tra questi, coloro che hanno considerato l’interazione tra genere e suicidio hanno dimostrato che esiste un rischio maggiore tra gli uomini divorziati piuttosto che tra le donne nella stessa condizione (addirittura si parla di un rischio otto volte maggiore rispetto alla controparte femminile) (Kposowa, 2000; Kposowa, 2003).

Diversi studiosi hanno cercato di dare delle spiegazioni plausibili per un gap così alto (Grall, 2011; Cancian et al., 2014; Scourfield and Evans, 2015).

Innanzitutto il divorzio comporta la perdita di quella coesione e integrazione, non solo famigliare ma anche sociale, di cui godono le persone sposate. Per molti individui, la perdita di questo supporto sociale, garantito dal matrimonio, è un trauma così profondo che potrebbe portare a soffrire di un intenso disagio psicologico, il quale potrebbe culminare nel suicidio.

Per gli uomini, inoltre, è cruciale il post-divorzio e il tema dell’affidamento dei figli.

Come molti già sapranno, infatti, per gran parte del XX secolo i bambini andavano a vivere con la madre: questa soluzione era perfettamente in linea con il ruolo di genere delle donne madri, ritenute più idonee nella cura dei bambini, soprattutto di quelli piccoli.

Al giorno d’oggi, nonostante l’istituzione dell’affidamento condiviso – che prevede il diritto del figlio di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori- i dati ci mostrano come la custodia fisica del minore (in Italia si tratta del genitore co-locatario) penda quasi del tutto a favore della madre, anche se ci sono stati notevoli incrementi della custodia congiunta (81.7% custodia alle madri, 18.3% ai padri).

Questo ha fatto pensare che, ancora oggi, i tribunali, in sede di divorzio, affidino molto più spesso i bambini alle madri, secondo la radicata convinzione che queste ultime possano occuparsi meglio dei figli dato il loro speciale legame. Un fenomeno non soltanto ascrivibile agli Stati Uniti, come viene dimostrato dalle innumerevoli associazioni per i papà separati presenti in ogni parte d’Italia.

A conclusione di questo paragrafo dovrebbe essere chiaro come mai gli uomini divorziati sembrino essere più a rischio di suicidio rispetto ad altri: essi sono quelli che più spesso, in un divorzio, perdono la casa e i figli. Questo, ovviamente, rappresenta un’enorme fonte di stress per l’individuo, il quale può avere serie intenzioni suicidarie se l’intera situazione del post-divorzio viene vissuta con disperazione, sensazioni di inutilità e impotenza.

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Isolamento sociale e violenza domestica

Nell’ultima parte di questo articolo ci concentreremo sull’isolamento sociale e sulla violenza domestica come ulteriori fattori di rischio per il suicidio negli uomini.

Innanzitutto la solitudine e l’isolamento sociale, percepite o concrete, del singolo individuo sembrano essere predominanti negli uomini. Le donne avrebbero maggior supporto sociale e reti degli uomini, i quali spesso conterebbero sul partner, considerato la più importante relazione che hanno (Debra Vandervoort, 2000; Oliffe et al., 2017, 2019).

Oltre al divorzio e alla separazione, tra le cause più significative che portano all’isolamento sociale dell’uomo abbiamo una certa spinta sociale che egli sente di dover perseguire, ossia quella relativa all’essere sempre competente e performante in ogni campo della vita; secondo uno studio di Seager et al. (2014) il cui fine era quello di validare e approfondire la possibile connessione tra suicidio e ruoli di genere tradizionali. La spinta a essere competenti e performanti è del tutto in linea con il gravoso ruolo di genere maschile dell’essere dei combattenti e dei vincenti. Tutto questo ha diverse conseguenze: innanzitutto si genera una forte competizione tra uomini che purtroppo va a discapito delle loro relazioni sociali e questi ultimi, tendono, poi, a isolarsi per perseguire questo ideale. Un ruolo di genere, purtroppo, ancora molto attuale.

La solitudine maschile sembra essere legata a doppio filo anche con il cosiddetto “empathy gap”, un bias cognitivo che, tendenzialmente, ci porta a ritenere meno rilevanti o meno gravosi i problemi che affliggono gli uomini (Martin Seager et al., 2016).

A causa delle pressioni definite poco sopra, la società non concepisce la vulnerabilità maschile e diventiamo tutti meno abili a considerare anche solo l’esistenza di un uomo in condizione di bisogno. Come conseguenza di tutto ciò, un uomo tenderà a isolarsi (per vergogna e per aver perso fiducia nelle istituzioni e nella società in generale) arrivando a considerarsi come un perdente o uno stupido, piuttosto che come una vittima vera e propria, al pari di tutte le altre.

Arriviamo alla violenza domestica. È importante porre l’attenzione su questo tema dal momento che uno dei principali fattori di rischio per il suicidio è l’aver subito dei traumi in età adulta, come, appunto, l’essere vittime di violenza domestica.

Questo articolo non è la sede giusta per approfondire le modalità, l’incidenza e lo sviluppo dei tassi di violenza domestica sugli uomini: si tratta, tuttavia, di un fenomeno esistente e già ampiamente documentato dal 1980 (John Archer, 2000; Murray A. Straus, 2010).

La correlazione tra suicidio e violenza domestica è un argomento ancora poco esplorato dai ricercatori, tuttavia in alcuni studi si evidenzia come il tasso di suicidi, collegato alla violenza domestica, sia maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne.

Questa è, ad esempio, la conclusione a cui è arrivato uno studio svedese (Dufort et al., 2015): leggendo l’articolo, si scopre che, di tutti i 50350 rispondenti al questionario per la salute pubblica svedese, 205 donne e 93 uomini riportarono di essere stati esposti a casi di violenza domestica. Nonostante l’articolo non chiarisca chi sia il perpetratore delle violenze tra i due partner, si viene a conoscenza del fatto che il tasso di tentati suicidi fra le donne è 5.59 OR, mentre tra gli uomini sale a 8.34 OR.

Lo stesso studio afferma, poi, che se da una parte l’esposizione alla violenza e l’incremento del rischio suicidario tra le donne è ben documentato, non si può dire lo stesso per la controparte maschile a causa di pochi studi a riguardo, come evidenziato anche da una recente revisione della letteratura in questo campo (McLaughlin et al., 2012).

Secondo un’altra ricerca, invece, se si sommano i suicidi e gli omicidi legati alla violenza domestica, il numero totale delle morti legate a questo contesto è maggiore tra i maschi piuttosto che tra le femmine: un dato che fa, sicuramente, riflettere sugli interventi e i servizi da rendere disponibili anche per il genere maschile (Richard Davis (2010)‘Domestic violence‐related deaths’).

Questi dati dovrebbero dare un’idea generale di alcuni dei fattori psicosociali responsabili del suicidio tra gli uomini e, si spera, contribuire a una riflessione in proposito.

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