«Scambiare (tauschen) ed ingannare (täuschen) sono spesso la stessa cosa.»
– Carl Schmitt, “Le categorie del politico“
Il poeta come anacoreta sperduto nei boschi, ultimo depositario del potere della parola, pensatore al di fuori del mondo, sospeso tra l’eternità della parola e la promessa di salvezza fatta al lettore – interessa i nostri tempi? Eppure poetare sembra debba essere per sé stesso negazione dell’homo oeconomicus, cioè una continua attività non solo senza produzione – in termini marxiani – di plusvalore, ma dalla quale ci si rimette. Nessun obolo può essere donato alla sua persona: le muse, saldato il conto, abbandonano l’artista. Il poeta dà, ma non deve ricevere. Come pensare allora, nei nostri giorni, la possibilità di una economia poetica?
Quanto scritto finora è il primo motivo per approcciare il testo di Anne Carson: “Economy of the Unlost”. Un’autrice che nel mondo anglosassone, almeno per gli appassionati ai riverberi della classicità nel mondo contemporaneo, non ha alcun bisogno di presentazioni. Il libro ci viene offerto da Utopia nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli, a cui dobbiamo l’efficace resa di Unloss con Imperduto. Dimenticare l’immagine del poeta come vate, impersonale, portatore di un’aura che lo solleva dalle umane miserie e dalle incombenze del vivere quotidiano. Invece, incastonarla all’interno della storicità delle vite di due poeti, molto distanti nel tempo: Simonide di Chio e Paul Celan. Il primo, vissuto nell’Atene nel V secolo, uno dei periodi più critici della classicità greca; ritenuto il responsabile della formalizzazione della poesia e del progressivo raggiungimento della sua autonomia dalle altre arti, fu il primo ad istituire la misura del compenso per un componimento. Paul Celan, invece, uno dei maggiori poeti del ‘900 – legato a doppio filo con l’esperienza della Shoah – ma anche al nascente regime capitalistico di mercificazione oltre che delle cose, della figura del poeta: “un uomo le cui speranze sono poche” (Economia dell’imperduto, Anne Carson).– Leggi anche #Bibliofagia: L’Unica Notte che Abbiamo
Gli interrogativi fondamentali attorno a cui è costruito questo libro sono due: il primo riguarda lo scarto che si lascia indietro poetando, ovvero ‘che cos’è che si perde, se si perde qualcosa, quando si perde tempo?’. Il secondo, qual è quel luogo in cui si raccolgono i rifiuti di questo inutile poetare – ovvero ‘dove sta allora la poesia?’. Ecco, la questione sottesa riguarda i nostri tempi più che mai e ci invita a ripensare la figura dell’artista contemporaneo, non stravolgendone l’immagine, anzi recuperandola con un movimento di torsione. Assomiglia molto al percorso che il discepolo buddhista compie nel tempo di Borobudur, sull’isola di Giava: un viaggio conoscitivo e al contempo di purificazione dal dolore del samsāra, il mondo sensibile. Il discepolo si avvicina alla piramide in pietra scorgendo tutta la confusione che abita il divenire caotico del mondo, espresso attraverso una simbologia complessa e affascinante; ma, ascendendo, le figure si diradano sempre più, la pietra diventa più grezza, fino a raggiungere all’apice una sorta di campana, che non contiene nulla. O meglio, contiene il nulla. Ascesi, purificazione, stravolgimento. Ma il discepolo deve tornare giù, e ripercorrere le figure a ritroso, con una consapevolezza totalmente differente. Deve.
Non è questo un topos citato nel libro, ma può essere che per Anne Carson ripensare il ruolo del poeta sia un po’ fargli compiere questo percorso. La vita – che non può essere comunicata se non dal poeta – si spoglia del suo carattere di inesprimibilità solo se, raggiunte le alte vette, ritorna nel quotidiano, nella storicità in cui appunto si esprime; come Simonide, incastonato tra il dovere di incidere un epitaffio e il dover farsi pagare. Come se il poeta salisse verso le alte cime dell’Olimpo per poi tornar giù, tra questioni mortali e di pecunia. Questa estraneità a sé stesso, questa necessaria irrequietudine è il motore di uno scarto. Scarto come spreco, dal punto di vista economico.
La verità della poesia è per prima cosa il continuo intessere relazioni tra quella vita visibile del poeta e quella invisibile del significato, nel modo in cui senza la prima non esiste la seconda – nell’intersezione continua tra il tutto-vuoto dell’esperire e il vuoto-tutto dell’esprimersi poetico. Un gatto di Schrödinger letterario. Lì sta lo scarto, lì vi è la mancanza, lì il voler disinnescare quel meccanismo per cui perdere tempo è una perdita di tempo. E non sono caratteristiche accessorie del mestiere, bensì ciò che rende improduttivamente produttivo ciò che il poeta fa. “Purificare le parole e di salvare quanto è purificato”, prendere il reale e ripiegarlo in un movimento soteriologico, di salvezza, di pulizia. Spinoza “puliva” le lenti, e la sua filosofia può sembrare pulita come lo è ciò che viene forbito. Un po’ come Simonide scolpiva con le poche lettere dell’epitaffio il segno che deve restare nella memoria, un po’ come per Celan il poeta è chi applica un lavorìo di escissione al reale lo sgrana dalle impurità che non significano, e che nascondono ciò che deve essere fissato in memoria.
Introdursi nella scrittura di Anne Carson può produrre un certo straniamento, dato dal continuo intrecciarsi di una precisa bellezza delle analisi testuali e furbizia dell’etimologia, con la capacità di sviluppare una narrazione, un movimento di delucidazione, che prende spunto da arcipelaghi temporali più svariati. Senza mai scordare di rendere chiaro il senso di una possibile economia poetica, da un racconto aneddotico si passa al confronto con un componimento meno noto; da una lettera privata si giunge a delineare il contesto storico in cui le parole operano attraverso l’analisi minuziosa di un termine. E grazie anche a questo riesce ad attualizzare, rirendere vivo un carattere peculiare del personaggio. Carattere nel senso più fisiognomico del termine, quasi un’orma che deve in qualche modo ripetersi, invariata nel tempo. L’impronta che il poeta stampa quando, appunto, si esprime. Dove il prefisso ex- suggerisce il fuori, quel fuori che però viene impresso dal carattere stesso, il suo interno.
Ed è proprio lì che Anne Carson, raccontandoci la spirale di vita e arte di due poeti in crisi, ci dice che abbiamo bisogno più che mai di poeti. Poeti duplici, critici: che siano situati nel tempo che vivono, eppure in legame con ciò che è atemporale. Duplici in quanto incomposti, incomponibili poiché mortali: “una volta inventato il tempo, come è stato fatto, possiamo sfuggirgli solo rifiutandoci di sapere che ora sia”. Entrare nel reale, per uscirne fuori pur rimanendo dentro. Una salita e una discesa in un unico movimento, necessariamente sincronico, che apre una possibilità: la grazia della poesia. Se è quindi vero che dalla poesia ci si rimette, è anche vero che a questo si deve il suo potere di rimettere.
Nella Fenomenologia dello Spirito, G.W.F. Hegel scriveva: “Lo Spirito riconquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta“. Nella disgregazione, sostandovi. È questa l’economia di ciò che si è perduto, di ciò che perdendosi non è mai dimenticato. Che sia l’impronunciabile esperienza dell’Olocausto o il momento storico in cui i social media si ergono a modelli di verità; che sia l’Atene del V secolo oppure semplicemente una qualsiasi crisi, il seducente viaggio all’interno del libro di Carson ci racconta cosa può voler dire scrivere di poesia. Cosa significhi usare la parola come un’arma. Del potere che la parola poetica ancora può avere. Forse non un’arma, ma un’ armatura che – nel contrappunto tra vuoto e pieno, tra tutto e nulla – ci permetta di sopravvivere al reale, per purificarlo. O di purificare il reale, per sopravviverci. Che, forse, è la medesima cosa.