“Solo adesso, attraverso le mie ricerche storiche, ho deciso di prendere atto dell’eredità che venendo al mondo mi è toccata in sorte e che in gran parte mi ha costituito, e penso di averlo potuto fare, di avere potuto guardare in faccia la mia storia intendo dire, nel momento in cui ho finalmente accettato che il mio compito non doveva essere né quello di un chirurgo chiamato ad asportare la parte del corpo intaccata dalla malattia né quello del giudice che al termine dell’udienza deve emettere il proprio verdetto, ma semplicemente quello di un passeggero che, dopo avere girato il mondo in lungo e in largo, decide di aprire la valigia chiusa che per tutto il tempo si è trascinato dietro.”
Il passo sopra è tratto dal romanzo L’Unica Notte che Abbiamo di Paolo Miorandi edito da Exorma. Si tratta di un romanzo che non si faticherebbe a definire corale, non fosse che è narrato con una voce scandita, definita, unica, certamente nel tono se non nei contenuti. Le prime pagine sono difficili. Ci si trova immediatamente invischiati in qualcosa di non immediato, diverso, tutt’altro che di facile comprensione. Se l’obiettivo è comprare un libro da leggere in dormiveglia la sera, insomma, questo potrebbe non essere adatto. Le prime pagine sono difficili, ma appiccicose. Non si capisce bene se la sostanza a cui ci troviamo appiccicati ci piaccia o no, la sola cosa certa è – appunto – che appiccica, e staccarsene è difficile.
Non serve molto per comprendere la ragione della difficoltà: aprendo il libro stiamo entrando, con inevitabile violenza, dentro la storia di qualcun altro. Non siamo fatti per stare lì, non è casa nostra e ci stiamo a tutti gli effetti intromettendo. Per ambientarsi serve un momento, non è un’operazione confortevole, né dovrebbe esserlo. Miorandi non addolcisce la transizione, con il merito, di renderla pura, tangibile, reale. Ecco che per un secondo viene da chiedersi se non sia il caso di chiudere il libro e tornare, a farsi gli affari propri.
Si intuisce però che dopo le prime pagine c’è qualcosa: potrebbe valere la pena di andare oltre quel piccolo disagio, pulirsi bene le scarpe, chiedere permesso ed entrare dimenticando per un po’ il mondo di fuori. Il pretesto è un’anziana vicina di casa. La morte è prossima, ha voglia di raccontare la sua storia. Si ha più volte l’impressione che il narratore non abbia scelta: condannato ad ascoltare. Anche da lettori si resta coinvolti in questo gioco di volontà, a poco a poco si capisce di dover semplicemente continuare a girare la pagina. Non per sapere che cosa succederà alle figure che ci sfilano davanti, ma perché si ha l’impressione di stare davanti alle pagine per un motivo.
L’Unica Notte che Abbiamo è la storia di una famiglia: qualche intrigo, rapporti umani imposti, scelti o casuali, una quantità di sofferenza tutto sommato comune. La narrativa scorre efficace, a tratti intrigante, sotto gli occhi di chi guarda, ma a impigliarsi nella mente è qualcos’altro. L’Unica Notte che Abbiamo mi ha fatto domandare quale sia il senso di una storia. Siamo abituati a un certo tipo di narrativa: inizio-svolgimento-fine. Questo libro recupera invece, come accennato, una narrativa di tipo corale, legata alle impressioni più che alla logica. È un’ottima occasione per riflettere sul fatto che, se il solo strumento di contatto che abbiamo con la realtà è la nostra percezione, allora forse questo è l’unico vero modo per raccontare una storia. Tutto il resto sono facili comodità per lusingare il lettore, che subito viene banalizzato per diventare cliente.
C’è un altro aspetto che tramite questa storia, avendo voglia di fare la poca fatica necessaria, si può mettere in discussione: la forma della temporalità con cui siamo abituati a concepire l’esistenza. La scrittura di Miorandi mi ha ricordato una poesia di Ricardo Reis (uno degli pseudonimi di Fernando Pessoa) trovata un po’ di tempo fa in una piccola raccolta edita da Penguin dal titolo I Have More Souls Than One. La poesia si chiama The Roses of the Gardens of Adonis e finisce così:
Like Them [the roses] let us make of our lives one day
Voluntarity, Lydia, unknowing
That there is night before and after
The little that we last
Come loro [le rose] facciamo delle nostre vite un solo giorno
Volontariamente, Lydia, inconsapevoli
Che ci sia la notte prima e dopo
Il poco tempo che duriamo
La morte, uno degli argomenti fondamentali del testo di Miorandi, sussurrata più che scandita attraverso le pagine, è esattamente questo: l’unica notte che abbiamo prima e dopo il poco tempo che ci troviamo a vivere. Rivelatore il plurale del verbo: si parla di una notte condivisa. La morte cessa, dentro a questo romanzo, di essere un’esperienza individuale. Invece ci riguarda tutti, in una dimensione complessa e collettiva. L’eredità che ne riceviamo è da intendersi in maniera altrettanto complessa e collettiva. Ci sono storie che ci vengono imposte, storie che si intrecciano, accadono, non si sa da dove arrivino, che ci ritroviamo semplicemente davanti, dono o condanna esse siano. Alla fine di questo viaggio c’è la notte che non sappiamo, la valigia che ci portiamo dietro pesa sempre di più, qualche volta sembra insopportabile. A guardarci dentro si trovano altro dolore, altre storie, ammaccate come la nostra, poche scuse, pochi espedienti per compiacersi e molta meravigliosa realtà. Paolo Miornadi ha aperto la valigia che qualcun altro aveva dimenticato; vederne il contenuto rovesciato – con tutto il disordine del caso – in letteratura è straordinario.