#DalMondo: la causa Antitrust degli Stati Uniti contro Google, spiegata dal New York Times

Lo scorso martedì gli Stati Uniti hanno mosso un’azione legale contro il gigante tecnologico Google, sostenendo che la compagnia protegga in maniera illegale il suo monopolio sul mercato delle ricerche sul web e della pubblicità digitale. I procuratori generali stanno concentrando le indagini soprattutto su alcuni accordi presi con altre importanti marchi del settore, come per esempio quello con Apple. La causa, lungi dall’essere una mera azione contro una compagnia commerciale, ha le potenzialità per stabilire un precedente estremamente rilevante nel rapporto tra le amministrazioni pubbliche e le Big Tech companies. Certamente passerà alla storia. Gli stati dovrebbero poter limitare la libertà delle grandi compagnie private nell’ambito del digitale? Se sì, fino a che punto? Quando ci si trova davanti a quesiti di questo tipo, dovrebbe prevalere la tutela del libero mercato o quella della libertà di scelta  consumatore? Riportiamo di seguito un’analisi di Steve Lohr pubblicata dal New York Times e tradotta per voi da MdC, per cercare di capire meglio lo scenario e la sua rilevanza per il futuro nel mondo Digital.

 

Si tratta della prima azione legale antitrust contro la compagnia di Alphabet, risultato delle indagini del Dipartimento di Giustizia, del Congresso e di 50 Stati e territori. Anche alcuni procuratori generali e agenti federali stavano investigando il comportamento di Google nell’ambito del mercato della pubblicità online. Allo stesso tempo, un gruppo di stati sta esplorando la possibilità di aprire un caso più ampio.

Ecco quello che c’è da sapere sulla causa.

 

Cosa sta succedendo davvero?

Quella degli Stati Uniti è una mossa contro una singola compagnia, ma è anche una risposta alla domanda di natura normativa riguardo quali misure debbano eventualmente essere prese per limitare i giganti della tecnologia contemporanei, che hanno il potere di influenzare i mercati, la comunicazione, e persino l’opinione pubblica. È stata la politica a dettare i tempi e la forma di questa causa legale. Il procuratore generale William P. Barr ha voluto muoversi in fretta, prima delle elezioni, per mantenere il proposito di Trump di sfidare le compagnie di Big Tech. Anche gli stati si sono poi uniti alla causa.

 

Cosa sostiene il Dipartimento di Giustizia contro Google?

Questo è un caso che riguarda la difesa del monopolio. Il Governo sostiene che Google stia proteggendo la sua posizione dominante sul mercato delle ricerche e della pubblicità online attraverso accordi con compagnie come la Apple. Quest’ultima è pagata da Google milioni di dollari l’anno per avere il suo motore di ricerca installato come default su iPhone e altri dispositivi.

Oltre a questo, il Dipartimento di Giustizia sta contestando anche una serie di altri contratti che Google ha stipulato con alcuni produttori di smaprtphones che utilizzano il sistema operativo Android di Google, imponendo loro di installare anche il motore di ricerca di quest’ultimo, come predefinito.

Il Dipartimento di Giustizia ha messo sotto indagine anche il comportamento e le acquisizioni di Google sul mercato complessivo della pubblicità digitale, che include la pubblicità di ricerca, la display advertising e i video pubblicitari. La pubblicità online è stata la fonte di praticamente tutti i 34 miliardi di dollari di profitto della Alphabet lo scorso anno.

Tuttavia, il caso sulla ricerca è più semplice, e dà al governo maggiori possibilità di vittoria. Per avere successo, il Dipartimento di Giustizia deve dimostrare due cose: che Google prevale tra i motori di ricerca e che i suoi accordi con Apple e le altre compagnie citate ostacolano la competizione per il mercato della ricerca online.

 

Quale sarà la strategia di difesa di Google?

In breve: non abbiamo nessun dominio, e la competizione sul web è “a portata di click”.

Questa è l’essenza della recente testimonianza dell’esecutivo di Google davanti al Congresso. La quota di Google sul mercato della ricerca online è circa dell’ottanta per cento. Ma guardare solo al mercato delle ricerche “generali” significa avere uno sguardo miope, sostiene la compagnia. Circa la metà delle ricerche per fare acquisti, fa notare, è su Amazon.

Google sostiene poi che gli accordi citati dal Dipartimento di Giustizia siano interamente legali. Questo tipo di contratti business-to-business possono violare le leggi antitrust soltanto se è possibile provare che rendano impossibile la competizione. Gli utenti possono cambiare motore di ricerca, passando per esempio a Bing di Microsoft o Yahoo Search, liberamete e quando vogliono, insiste Google. Il motore di ricerca di Google è leader di mercato semplicemente perché gli utenti lo preferiscono, sostiene la compagnia.

 

Qual è il danno per il consumatore se il servizio di motore di ricerca di Google è gratuito?

Secondo il governo, i danni sono diversi. Meno competizione in un determinato mercato significa meno innovazione e alla lunga meno possibilità di scelta per il consumatore. Questo, almeno in teoria, potrebbe chiudere il mercato ai quei rivali che raccolgono meno dati di Google per la pubblicità mirata. Aumentare la privacy, per esempio, rappresenterebbe un beneficio per gli utenti.

I beni offerti gratuitamente al consumatore non sono esenti dai controlli sull’antitrust. Nel caso simbolo che ha coinvolto Microsoft alla fine degli anni ’90, il gigante dei software aveva fornito gratuitamente il suo browser sul suo sistema operativo dominate Windows. Microsoft perse perché, mettendo in atto contratti restrittivi, impediva ai produttori di personal computer di offrire browser che potessero reggere la competizione, con il rischio di minacciare il primato di Microsoft.

 

Cosa succederà ora?

A meno che Google e il governo non raggiungano un accordo, la questione finirà in tribunale. Processi e appelli, in casi come questo, possono durare anni. Qualsiasi sarà il risultato, una cosa è certa: Google rimarrà sotto esame costante per molto tempo.

 

Questo articolo è la traduzione di un’analisi sul New York Times a cura di Steve Lohr, disponibile qui.

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