Scenario:
Sei uno studente bolognese. La tua università è ancora perfettamente operativa. Stai per sostenere un esame. Sei seduto in cortile, sfarfugli mentalmente le tue tre o quattro nozioncine mandate a memoria come tuo solito. Un ragazzo ti si siede accanto. Lo ignori. Lui ti parla in inglese con accento mediorientale, sorride, ti chiede che esame stai preparando. Gli rispondi: letterature francofone. Chiacchierate. Ti chiede se conosci posti dove ballare. Dici che no, non sei proprio “that much of a dancer”. Ti chiede se conosci qualcuno che affitti casa, allora, che per uno studente straniero è abbastanza difficile trovarla. Ti ricordi com’è stato trovare casa a Parigi da europeo, eh? E quando sei tornato a Bologna? Figurati da extracomunitario. E allora gli dici che forse un tuo coinquilino se ne vuole andare ma ancora non si è capito bene cosa farà. Ti ringrazia, e ti fa un’altra domanda: ti chiede anche dov’è che si faccia politica in città. “Dov’è che si fa politica qui?” Prima che lui abbia finito di parlare lo hai già indirizzato a Labàs – un centro sociale disobbediente in centro, non sei uno di loro, sei troppo asociale, ma quel posto ti piace – ma ti sei anche reso conto che la sua richiesta, un po’ come la tua risposta, è strana, inusuale. Chi è che chiede dove si possa far politica a una persona appena conosciuta? Tu non lo hai mai fatto a Parigi. Perché? Lui dice che è un attivista. Che anche al suo Paese era un attivista. Che ha partecipato alla Rivoluzione del 2011.Tu allora torni sedicenne e sgrani gli occhi, come se avessi davanti uno dei tuoi eroi. Certo, lui sembra veramente un ragazzo come tanti, non è certo il rivoluzionario arabo leggendario che ti saresti immaginato al liceo (una strana specie di incrocio tra Mr Robot e Omar Al-Mukhtar, il Garibaldi libico, per farla breve). Ma diamine, quella rivoluzione è il motivo per cui studi arabo, gli dici. Ah, allora lo possiamo parlare, ti fa lui. Chini il capo e ti tocchi la fronte: ehm, no, non è che tu l’arabo lo sappia parlare davvero, in effetti. Lui comunque sorride. Continuate a parlare in inglese. Vi scambiate i numeri e gli prometti che se saprai qualcosa di case che si liberano, glielo farai sapere, ma che magari vi potreste vedere anche una sera per una birra.
Eh, però la sera tu lavori sempre, e quando stacchi non ha mai tutta questa voglia di restare in giro. Quindi vi incrociate qualche volta, quasi per caso: in Piazza San Francesco mentre aspetti tra una consegna e l’altra. Lui ti ha aggiunto su Facebook, e tu di tanto in tanto cerchi di decifrare i post che pubblica, in arabo. Vi scambiate qualche messaggio su Whatsapp e lui ti richiede se hai più saputo niente di quella stanza, se il tuo coinquilino si è poi capito che farà. E la verità è che il tuo coinquilino se n’è già andato, ma tu hai detto prima il tutto a un tuo amico, un ragazzo che tempo una settimana si è trasferito a casa tua. Prima gli italiani? No, il ragazzo è inglese ma lo conoscevi già: prima gli amici. Funziona così in Italia purtroppo, funziona così in una Bologna in piena crisi abitativa. Ti mordi il labbro a ripensarci.Tu però questo a Patrick non lo dirai. Ti limiterai a dire che se sentirai di qualcuno che affitta una stanza lo terrai aggiornato. Solo che invece non vi sentirete più: lui pochi mesi dopo tornerà in Egitto e sarà sequestrato dal suo stesso governo.
Patrick George Zaky, 27 anni, sarà infatti fermato all’aeroporto del Cairo, dove stava tornando per recarsi a Mansoura a fare visita alla sua famiglia, venerdì 7 febbraio. Scomparirà per 24 ore, durante le quali la sua famiglia non saprà nulla, come nemmeno l’Egyptian Initiative for Human Rights (EIPR), l’associazione per cui lavorava. Poi sarà trasportato a Mansoura, la sua città natale, non lontano dal Cairo, dove sarà detenuto nella stazione di polizia di Talkha interrogato in Procura. Emergerà così che fin da settembre 2019 pendeva sulla testa di Patrick Zaki un mandato di arresto, mandato di cui lui però non era a conoscenza. L’accusa: essersi opposto al regime egiziano a mezzo social. Fare propaganda, ma soprattutto essere un attivista per i diritti LGBTQI+, coerentemente con il master da lui seguito in Gender Studies, fatto che per i media egiziani di regime equivale all’accusa somma: terrorismo. E niente, da allora lui sarà spostato nel carcere di Mansoura, dove i suoi parenti non potranno più fargli visita, e ancora dopo nel carcere di Tora al Cairo, mentre la Procura continuerà a rimandare le sue udienze, prima con un pretesto qualunque, poi con il pretesto principe: “it’s corona time”.
Paradossale visto che Patrick Zaki è pure asmatico, e sarebbe quindi un soggetto più a rischio di altri, all’interno di una prigione.
Ovvio, no? Come altro poteva andare, sorriderai amaro, al chiuso della tua quarantena. Succede a tutte le persone che conosci nel cortile dell’Università, del resto, di essere arrestate dal proprio governo per il solo fatto di andare in giro per i cortili virtuali a chiedere “Dov’è che si fa politica qui?”, per pubblicare, informare, interessarsi. Succede proprio a tutti. “Dov’è che si fa politica, qui?” Ma ti pare? È chiaramente una domanda criminale.
Ogni tanto ci ripensi ancora, vero? Sì, ci ripensi. Al chiuso nella tua quarantena domestica, tu che hai la fortuna di passarla quantomeno in buona compagnia. Ogni tanto ci ripensi a quel Patrick sorridente e baffuto che tre mesi fa avevi blandito con la tua finta cortesia da due soldi e che ora se ne sta con tutta probabilità ancora chiuso in una cella, magari pure in compagnia, sì, ma in compagnia di chi?
E tu ci proverai, a dimenticartelo, eh. Eccome se ci proverai. A tornare alla normalità. Ma immancabili ogni tot compariranno i post di Facebook di Amnesty Italia e Amnesty Bologna, a ricordartelo, a ripresentartelo davanti agli occhi. Come pure ogni tanto sempre sul profilo di Amnesty compariranno le foto di ragazze e ragazzi con cartelli che gridano “Free Patrick Zaky” a dirti che tu sei al chiuso sì, ma che pure lui lo è, perché la legge non è uguale per tutti se la legge non è la stessa, se i diritti non sono gli stessi. A ricordarti che tu sei al sicuro, forse: ma lui no di certo.
Come pure ogni tanto ci penseranno gli aggiornamenti della pagina Patrick Libero – Al-Horreya Li-Patrick George, creata dai suoi amici, a scandire le settimane come e peggio delle dirette di Conte, con il costante promemoria dell’ennesima udienza rifiutata, della famiglia che ancora aspetta di sapere qualcosa, della petizione su change.org da firmare che ad oggi ha di gran lunga superato le 200 mila firme. E se proprio tu volessi ancora far finta di niente, ecco che invece ci penserà la pagina di Làbas a ricordarti tutte le storture degli accordi tra Eni e Governo Egiziano per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale nello Zohr, a ricordarti le mancanze dello Stato Italiano che come con Giulio Regeni si dimostra molto molto debole quando si tratta di difendere sia i suoi cittadini che i suoi studenti, ma invece molto molto più accorto qualora si tratti piuttosto di fare accordi economici, di fare accordi per i rimpatri, di fare accordi per nascondere la polvere sotto il tappeto. E tu ti troverai combattuto quindi: tutto sommato sarai sinceramente combattuto tra quella che tutto sommato è un’iniziativa carina da parte della tua università, che crea una mail espressamente per scrivere a Patrick (forpatrick@unibo.it) e che un po’ velleitariamente forse chiede all’ ambasciatore egiziano di permettere a Patrick di seguire le lezioni del suo Master in Gender Studies online (richiesta ovviamente ignorata), e dall’altra parte la constatazione che quella stessa università forse potrebbe fare di più, che potrebbe fare pressioni su Eni con cui l’università ha accordi. Chi ha ragione, allora? Quella dell’università è ipocrisia? È dello Stato italiano l’ipocrisia? È dei partiti di opposizione che dicono una cosa e appena sono al governo fanno il contrario, l’ipocrisia? O è tutta tua invece? Già, perché tu una risposta ce l’hai, vero?
Eh. No che non ce l’hai. Sai solo che Patrick Zaki sta ancora in cella, sai solo che la quarantena ha bloccato tutto, sai solo che le prigioni egiziane non son certo il luogo più sicuro del mondo, e sai pure anche che l’opinione pubblica italiana in questo momento è altrove, perchè in questo momento sembra diventare tutto virtuale, e quindi tutto così dannatamente irreale e distante. È difficile manifestare, è difficile interessarsi. Però ti sforzi, cerchi di essere meno astratto, meno retorico, meno irrazionale. Ripensi al Patrick che hai conosciuto, a quello che ti hanno raccontato, a quello che hai sentito presentare come una persona buona. Che parlava con tutti, che socializzava con tutti. Chissà, forse avrà socializzato pure in prigione: per qualche secondo te lo immagini pure come in una di quelle scene di Terra di Fichi d’India, il romanzo di Sahar Khalifa, con i prigionieri palestinesi che si politicizzano, che socializzano, con le loro idee socialiste e rivoluzionarie che si diffondono con buona pace di quello stesso regime che le opprime.
E poi però ragioni che non siamo in un libro. Che non siamo in Palestina. Che non siamo neppure in Egitto. Ragioni che tu stai in Italia e che non c’è davvero nulla di epico in tutto questo. Che con tutta probabilità tu le sofferenze che Patrick Zaki sta sopportando neppure le puoi immaginare.
“Patrick è stato picchiato, sottoposto a elettroshock, minacciato e interrogato in merito al suo lavoro e al suo attivismo. I legali ci hanno assicurato che sul corpo mostra segni visibili delle violenze” dice EIPR.
Come se tu, tornando da Parigi, fossi stato arrestato su Facebook per aver parlato male di Di Maio. “Picchiato e sottoposto a elettroshock”, sì, proprio lui che era una persona così buona. Buona sì, lo ha ripetuto più volte quel suo amico di cui non conosci il nome, durante il flash mob di marzo.
E però una voce ti risuona in testa: “i diritti umani non devono essere difesi perché siamo persone buone. I diritti umani vanno difesi e basta”. Già, è così: Patrick Zaki potrebbe essere la persona più infame del mondo, potrebbe essere un criminale o, peggio, un fan di Luca Telese, eppure i suoi diritti meriterebbero comunque di essere rispettati: andrebbero difesi solo e soltanto perché è una persona.
Sembra una verità di fede. Forse lo è. Non importa.
Fatelo tornare a casa, per favore.