Le immagini di barconi nel Mediterraneo e di persone in marcia alle frontiere europee sono ormai uno “spettacolo” abituale sui mass media. Ad esse sono collegate le richieste di maggiore o minore accoglienza a seconda degli schieramenti politici, entrambe comunque concentrate sul sottolineare l’aspetto emergenziale di questi flussi in entrata. Le migrazioni, però, possono anche essere analizzate come “armi” da parte di un Paese verso altri: è ciò che fa Kelly M. Greenhill, professoressa associata alla Tufts University, nel suo saggio Armi di migrazione di massa (LEG, 2017).

Kelly M. Greenhill (Credits: Associazione Culturale èStoria/Facebook)
Sembrerebbe un’esagerazione parlare delle migrazioni come tattica offensiva di politica estera, ma non si tratta, comunque, di azioni prettamente militari, quanto di uno “strumento molto efficace per influenzare dei bersagli”, ci spiega la stessa politologa ospite a Gorizia del festival èStoria, svoltosi in città dal 14 al 20 maggio. Questo può operare in due modi: il primo è la pressione alle frontiere tra stati, attraversate da flussi sempre più ingenti di migranti, andando così a sopraffare la capacità di accoglienza dei Paesi bersaglio. Essi si dovranno quindi occupare delle conseguenze, tra cui quelle economiche. Gli esempi peggiori si manifestano nei Paesi in via di sviluppo, in quanto meno capaci di fronteggiare shock economici, sociali e politici. “Come mostra la crisi migratoria in corso in Europea – continua Greenhill -, flussi più grandi possono essere usati contro i Paesi industrializzati”.
Il secondo modo con cui queste “armi di migrazioni di massa” provocano agitazione sociale è molto comune nei Paesi avanzati, con la pressione esercitata sui leader politici per considerare le domande di chiusura delle frontiere, “altrimenti pagherebbero significanti conseguenze politiche interne” spiega la docente. Perché i governanti sentono la necessità urgente di rispondere a queste richieste? Ci sono parti della società che sono favorevoli all’accoglienza, perché pensano che sia necessario proteggere i rifugiati, che dovrebbero essere i benvenuti, che i migranti aiutano l’economia e che gli stati hanno firmato la convezione per i rifugiati; al tempo stesso, c’è un’altra parte che cresce sempre di più nei numeri e che è contraria a tutto ciò, non vuole più rifugiati né migranti. “Le persone nella stessa società hanno punti di vista diversi: così come in Italia molti hanno votato per il Movimento 5 Stelle e la Lega, così negli USA altrettanti hanno scelto Trump” aggiunge l’esperta.Gli effetti della spinta migratoria in questione sono obiettivi raggiungibili facendo leva sulla popolazione locale: se abbiamo uno stato disponibile all’arrivo di queste persone, nessuno farà opposizione al loro ingresso; viceversa, in uno dove la gente è contraria, sarà uno strumento utile per le rivendicazioni dei gruppi nazionalisti, come in Ungheria.

Volontari dell’ONG spagnola Proactiva Open aiutano a sbarcare dei rifugiati siriani e iracheni a Skala Sykamias, sull’isola di Lesbo, Grecia, arrivati dalla Turchia (Credits: Ggia/Wikipedia Commons)
Nel suo libro, la politologa cita diversi casi storici di uso delle migrazioni come arma. Tra questi possiamo aggiungere anche quello del popolo palestinese, la cui diaspora si è diffusa in moltissimi paesi arabi e non solo, ma le pressioni esercitate per la propria causa variano da luogo a luogo: “Dopo la Guerra dei Sei Giorni – ricorda l’autrice –, un gran flusso di palestinesi si è rifugiato in Giordania ed essa ha usato questa migrazione contro gli Stati Uniti, minacciando di rimandare indietro queste persone in Israele”. È un discorso che oggi potrebbe essere fatto anche da altri stati; la stessa Amman attualmente ospita 600mila profughi siriani (dati UNHCR), anche se difficilmente userà questi contro il regime di Assad.
Sul tema migrazioni dal Medio Oriente all’Europa, è impossibile non commentare l’accordo tra Unione Europea e Turchia per bloccare la rotta balcanica: sembrerebbe che Bruxelles abbia deciso di “suicidarsi” con questa decisione, dando un potere enorme ad Erdogan. Il leader turco, però, aveva il coltello dalla parte del manico già da prima: aveva già minacciato di non interessarsi dei flussi verso l’Europa tra l’ottobre/novembre del 2015 e il febbraio/marzo 2016. Il problema è che gli Europei non si sono preoccupati del tema prima, rendendosi vulnerabili. Questo accordo ha risolto i problemi? Probabilmente ora la situazione è migliore per la Grecia, mentre in Italia la maggior parte delle persone arriva dalla Libia e il problema non è certo cessato.