Suicidi universitari: cosa c’è dietro questo fenomeno?

Ogni tanto ne spunta uno: ad un certo punto, si smette di contarli. Le grandi testate giornalistiche ne fanno un triste articolo con tanto di dichiarazione dei Rettori, che mai si sarebbero aspettati questo gesto estremo. I cronisti in TV li ricordano come fossero caduti di guerra. L’Università in questione sospende le attività didattiche per qualche giorno. E poi chi si è visto si è visto e le cose ricominciano a scorrere come sempre.

Dicendo le stesse cose. Commettendo gli stessi errori. Affrontando le stesse paure. Sentendosi sempre più soli.

Poco più di due giorni fa, Giada si suicida, gettandosi dal tetto dell’Università di Napoli. Nel 2016, Maurizio si spara davanti alla facoltà di Ingegneria di RomaTre. Due anni prima, a 5 esami dalla laurea, si toglie la vita una ventinovenne di Pomigliano d’Arco. E potremmo continuare all’infinito.

Potremmo andare indietro di cinque, dieci o quindici anni e la media degli universitari suicidi sarebbe di circa tre all’anno.

Tutti, o quanto meno la maggior parte, con un’unica motivazione: una laurea che non arriva mai. E la paura che i genitori e le persone care lo vengano a sapere, considerandoli dei falliti.

Facoltà sbagliate frequentate senza passione solo per la certezza di avere un lavoro una volta fuori dall’Università, la credenza sociale in una sedicente superiorità intellettuale da parte dei laureati e la necessità mai meglio specificata di laurearsi esattamente nei tempi, senza perdere nemmeno un mese per quell’esame che proprio non si riesce a superare.

Sono le motivazioni più frequenti -e anche le più banali, a pensarci – scritte sui biglietti di addio dei ragazzi che decidono di farla finita.

Il fenomeno, tuttavia, non porta solo il marchio italiano. Anzi, in America – e in particolare negli Stati Uniti – secondo il College Degree Search almeno uno studente su dodici pianifica il suicidio e questa resta una tra le prime cause di morte tra gli universitari. E, dati alla mano, i casi sembrano destinati ad aumentare.

Ora: è difficile stabilire se il problema siano più le aspettative troppo alte dei familiari o le proprie, fatto sta che la paura di non essere abbastanza sembra sia il fattore scatenante di quella che potrebbe tranquillamente essere chiamata, con un termine arbitrario, “depressione universitaria”.

Già nell’adolescenza – in cui ha inizio la fase di distaccamento emotivo dalla famiglia e ha inizio la ricerca di un proprio spazio – i disequilibri biologici del cervello portano ad un’impulsività maggiore dovuta all’eccessiva grandezza dell’area limbica (deputata alle emozioni) rispetto a quella della corteccia prefrontale (ragionamento). L’assestamento biologico avviene soltanto tra i 20 e i 25 anni.

Alice Miller, psicologa

La famosa psicologa Alice Miller punta il dito indiscutibilmente sulle famiglie: l’incapacità di molti genitori di riconoscere nel figlio una persona autonoma, un “altro da sé”, agisce molto sull’identità del ragazzo, anche – se non soprattutto – a livello inconscio.

È per questo che molti finiscono per incastrarsi in ruoli di subordinazione genitoriale, magari frequentando università e corsi che non appartengono a ciò che vorrebbero realmente. Per conformarsi alle aspettative dei genitori, quindi rimuovono inconsciamente i loro reali bisogni entrando in un circolo vizioso di paura e disagio.

Tuttavia, continua la psicologa, anche il forte senso di responsabilità può andare a scatenare la paura di sentirsi inadeguati rispetto al ruolo che si è scelto (consapevolmente o no): moltissimi college americani, ad esempio, hanno standard e aspettative troppo alte nei confronti degli studenti, scatenando una forte e malsana competizione.

In fondo, basterebbe cambiare il modo di vedere le cose: nessuno di noi è la propria laurea. Siamo persone, prima di essere laureati, impiegati, insegnanti, medici.
E anche solo per questo dovrebbe valerne la pena.

Sull’Autore

Classe '96, universitaria per caso e musicista per scelta, scrivo per non sentirmi eccessivamente fuori posto in questo mondo.

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