L’equivalenza tra Continente africano e petrolio è un dato di fatto: le ricchezze esorbitanti di greggio sono da sempre al centro degli interessi di governi e multinazionali del settore. Spesso, però, i giacimenti si trovano in zone tutt’altro che “pacifiche”: è il caso della Somalia, che dal 1991 è caduta in caos politico-bellico, terminato solo da pochi anni dopo il conflitto civile che ha devastato il Paese per oltre vent’anni.
Le tensioni nell’estremo lembo del Corno d’Africa hanno fomentato preoccupazioni tra i governi della regione e del mondo intero, provocando di conseguenza l’intervento delle Nazioni Unite nel ‘92 con le missioni UNOSOM e UNITAF, destinate a un tragico fallimento che contribuì a far sprofondare il Paese nella guerra. Ciò che interessa a noi, però, è la missione AMISOM, approvata dall’Unione africana nel 2007 e che vede tutt’ora eserciti africani contro gli estremisti islamici. E si arriva così al 2011.

Barili di petrolio/ Lucia Asnaghi/ Flickr
In pratica, si sarebbe appropriata di quella zona sottraendola alla sovranità somala. E non solo: vista la presenza di “oro nero”, il governo kenyota ha stipulato dei contratti di esplorazione nel 2012 con ENI e la TOTAL, con il conflitto civile e il caos politico che ancora regnavano nello Stato occupato.
Per far valere la propria sovranità, Mogadiscio si è quindi rivolta alla Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), che a inizio febbraio “ha rigettato entrambe le eccezioni sollevate dal Kenya per contrastare la domanda presentata dalla Somalia al fine di stabilire i limiti esterni della sua piattaforma continentale oltre le 200 miglia nautiche”, la quale si era appellata alla “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) alla quale aderiscono entrambi i contendenti” ha chiarito Said.

Truppe italiane al lavoro in Somalia, durante la missine UNOSOM II nel 1994/ Joanna Seltzer, U.S. Air Force/ Wikipedia
Lo scontro giudiziario riaccende l’astio kenyota verso gli organi dell’Aia, dove nel 2014 la Corte Penale Internazionale aveva messo sul banco degli imputati il Presidente Uhuru Kenyatta, accusandolo delle violenze post-elettorali nel 2007 e 2008 che causarono un migliaio di morti e oltre 500mila sfollati. Il verdetto non è mai arrivato, fatto che molti hanno letto in chiave politica, in quanto Nairobi è uno degli alleati più affidabili degli USA nel Continente nero, ma le tensioni rimangono.
Resta da chiarire come abbia fatto il Kenya a sapere della ricchezza petrolifera della zona: infatti, i giacimenti erano stati scoperti dall’allora dittatore Barre, ma lo scoppio della guerra tra fazioni rivali e la sua fuga ha impedito di sfruttarla. Una risposta potrebbe essere il lavoro d’intelligence, ma bisogna segnalare due fatti importanti: nel ‘92, Barre cercò asilo a Nairobi ma, a causa dell’opposizione interna, dovette ripiegare sulla Nigeria; venne invece accolto nel 2007 Sharif Sheikh Ahmed, ex leader dell’Unione delle Corti Islamiche (ICU) – organizzazione da cui nascerà Al Shabaab – e futuro Presidente somalo nel 2009.

Stazione ENI in Ungheria/ Globetrotter19/ Wikipedia
In questo complesso quadro internazionale, le ombre cadono ancora una volta sull’operato di ENI. La quale non si riesce a capire come abbia potuto ignorare i confini riconosciuti dall’ONU, se non dietro specifiche rassicurazioni che però, almeno per ora, appaiono malfondate. Sentimenti di malumore nella popolazione locale sono emersi già da tempo, come testimoniano le proteste del 2015 riportate dal sito Hiiran.
L’idea della multinazionale italiana di entrare in Somalia sembra però contraddirsi con la notizia del rifiuto della stessa di stringere un’accordo con un’azienda locale, riportata dal Telegraph: “The embattled energy explorer Soma Oil has failed to seal a deal with the Italian giant ENI to fund the next phase of its effort to open up Somali oil fields. (…) The company, backed by the Russian oligarch Alexander Djaparidze among others, faces corruption claims. The investigation of initial allegations by a UN group was dropped after a year”.
Dietro al confronto Kenya-Somalia ci potrebbero essere gli interessi di diversi attori: Uganda ed Etiopia su tutti, che da tempo esercitano pressioni su Mogadiscio per deciderne la politica nazionale; le compagnie petrolifere anglofone, che potrebbero aggiudicarsi una zona strategicamente importantissima, essendo l’entrata e uscita per lo stretto di Suez e il golfo di Aqaba. Tutte supposizioni, che comunque non vedono bene la permanenza della presenza italiana nella zona.